LA PRESCRIZIONE DI OPPIACEI NELLA TERAPIA DELLE TOSSICOMANIE: ASPETTI MEDICO-LEGALI
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Premessa
Negli ultimi 30 anni vari provvedimenti legislativi e amministrativi , statali e regionali hanno limitato la possibilita’ dei medici di effettuare, sulla base dei dati scientifici e nel rispetto del codice deontologico, terapie con metadone per la tossicodipendenza da oppiacei. Tutto cio’ ha suscitato, ovviamente, l’opposizione di molti colleghi e ha dato origine ad una lunga serie di contenziosi sul piano politico, amministrativo e giudiziario.
Fare il punto della situazione in un determinato momento non risulta molto facile dato che l’interminabile vicenda e’ in perenne evoluzione e sembra ben lontana dalla conclusione. Questa relazione riflette necessariamente l’interpretazione dell’autrice che può non coincidere con quella di altri colleghi. Tuttavia quanto verrà esposto è frutto di posizioni che non sono mai state sostenute individualmente ma sempre con l’appoggio e l’accordo dell’Ordine dei Medici della Provincia di Brescia e, in alcuni casi, della Federazione Nazionale Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri. Questa posizione coincide inoltre con quelle espresse in più occasioni dalla Società Italiana Tossicodipendenze e con quelle accettate dalla magistratura in varie vertenze giudiziarie.
Antefatto
Il D.P.R. 171/93 abrogò, a seguito di referendum popolare i seguenti punti della legge 309 90:
L’art. 2, punto 4), lettera e), comma 1), attribuiva al Ministero della Sanità la competenza di stabilire con proprio decreto “i limiti e le modalità d’impiego dei farmaci sostitutivi”;
l’art. 72 il comma 1 vietava ” l’uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle previste dall’art.14 ” e ” qualunque impiego di sostanze stupefacenti o psicotrope non autorizzato secondo le norme del presente testo unico”;
l’art.. 72 comma 2 limitatamente alle parole ” di cui al comma 1″ il cui nuovo testo è pertanto il seguente ” è consentito l’uso di preparati medicinali a base di sostanze stupefacenti o psicotrope debitamente prescritti secondo le necessità di cura in relazione alle particolari condizioni patologiche del soggetto”.
Il Ministero della Sanità emanò, in seguito a tale nuova situazione giuridica , non più un decreto, ma la circolare 20/94 contenente linee guida che suggeriscono , tra l’altro, una serie di procedure riassumibili come segue :
Si fa riferimento inizialmente a “detossicaficazione”, ipotizzando come unica possibilità la progressiva riduzione del dosaggio iniziale del farmaco, ma poi si danno indicazioni sui trattamenti di mantenimento specificando che tali trattamenti non possono avere limiti di dosaggio o di durata definiti a priori.
Si afferma che i farmaci utilizzabili per la terapia sostitutiva sono unicamente quelli per cui tale indicazione è prevista nel provvedimento autorizzativi.
La prescrizione viene considerata possibile solo da parte de i Servizi Pubblici e dei medici di base .
Si ritiene obbligatoria la comunicazione scritta del trattamento al medico di base del paziente
Si afferma che la consegna del farmaco dovrebbe essere fatta solo ” ad un famigliare referente che, attendibilmente, garantisca sul suo uso appropriato”. Si afferma inoltre che ” è indispensabile che il famigliare referente al quale viene affidato il farmaco sia uno stretto congiunto del paziente , scrupolosamente identificato e non sostituibile da altro famigliare se non per eccezionale necessità”.
Tali indicazioni suscitarono, a suo tempo, una serie di critiche principalmente perché si ritenne che indicassero, in certi punti , comportamenti gravemente illegittimi che, se attuati, avrebbero potuto anche configurarsi come reato. La circolare non venne tuttavia ritirata e nemmeno impugnata : poiché conteneva delle semplici linee-guida e non era perciò in alcun modo vincolante, non poteva infatti essere annullata per via giurisdizionale. La legge 8 febbraio 2001 n.12 introdusse una serie di modifiche agli articoli 41 e 43 della legge 309/90 allo scopo di regolamentare la prescrizione di stupefacenti fino a 30 giorni per la terapia analgesica , ma escluse l’applicabilità delle nuove norme alle terapie sostitutive che restano regolamentate dall’articolo 43 comma 3 della legge 309/90, rimasto invariato.
Tale interpretazione venne peraltro confermata dalla circolare del Ministero della Sanità 8 giugno 2001 n.9.
Pertanto attualmente nel nostro paese la terapia sostitutiva per la dipendenza da oppiacei è specificamente limitata solo dal dettato della legge 309/90: obbligo del registro di carico e scarico, divieto di consegna a minori e persone manifestamente inferme di mente, scopo terapeutico della prescrizione, prescrizione su ricettario di vecchio tipo fino ad un massimo di 8 giorni di terapia. Per ogni altro aspetto valgono le norme applicabili a tutti i farmaci . Ciò non ostante alcune regioni, supportate in maniera contraddittoria dallo stesso Ministero della Salute, hanno ripreso le indicazioni della circolare 20/94 in documenti che si pretenderebbero vincolanti, aggravando le incongruenze. Si verifica infatti che alcuni diritti civili, dei medici e dei pazienti , sembrerebbero dipendere dalla residenza geografica.
Di seguito riportiamo alcune osservazioni relative ai più frequenti problemi che si verificano rispetto alla terapia sostitutiva.
Affidamento del farmaco a persona diversa dal paziente
Alcune regioni o alcuni membri dei N.A.S., hanno ritenuto di considerare vincolante quanto la circolare 20/94 dispone rispetto all’affidamento. Lo stesso Ministero, con una nota all’Ordine dei Medici di Roma del 1- 8-2003, confermava in pieno questa posizione. Pertanto, di fatto, si pretenderebbe che persone maggiorenni e non interdette, con diagnosi di dipendenza da oppiacei che richiedono una terapia farmacologica sostitutiva ai sensi dell’articolo 43 del T.U. 309/90 (cioè con prescrizione fino a 8 giorni di terapia), vengano costrette a farsi accompagnare da un famigliare che dovrebbe prendersi , addirittura per iscritto, la responsabilità della conservazione e somministrazione dello stupefacente con ciò assumendo le stesse funzioni di un farmacista e di un infermiere professionale.
Osservazioni
A nostro giudizio la legittimità dell’affidamento di un farmaco stupefacente o psicotropo a persona diversa dal paziente maggiorenne non interdetto può essere valutata da 4 punti di vista : quello dell’autorità prescrivente, quello del medico, quello del paziente e quello della persona affidataria .
Esponiamo separatamente, in maniera schematica, le nostre considerazioni in proposito.
La posizione dell’autorità prescrivente La Costituzione della Repubblica stabilisce nella sua Parte Seconda, dedicata all’Ordinamento dello Stato, quali siano le competenze dei vari organi dell’Amministrazione. In particolare:
La Sezione 2 articolo 70 attribuisce alle Camere la funzione legislativa .
L’articolo 74 consente al Presidente della Repubblica di rinviare un provvedimento alle Camere, ma dispone l’obbligo di promulgarlo se le Camere lo approvano nuovamente .
L’articolo 75 attribuisce viceversa al popolo l’esercizio diretto della sovranità attraverso referendum abrogativi delle leggi approvate dal Parlamento.
L’articolo 76 stabilisce che l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.
L’articolo 77 stabilisce che il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria.
L’articolo 114 stabilisce che le regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.
L’articolo 116 prevede l’adozione di statuti speciali con leggi costituzionali per le cosiddette regioni autonome e che, altre forme di autonomia, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, alle norme generali sull’istruzione e alla tutela dell’ambiente e dei beni culturali, possono essere attribuite con legge dello Stato ad altre Regioni.
L’articolo 117 stabilisce, con le tre possibili eccezioni sopra citate, le materie in cui lo Stato ha legislazione esclusiva .
Tra queste rientrano la giurisdizione e le norme processuali, l’ordinamento civile e penale, la giustizia amministrativa, la determinazione dei livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale .
Lo stesso articolo prevede che , nelle materie di legislazione concorrente, tra cui ” professioni” e “tutela della salute”, la potestà legislativa spetti alle Regioni, “salvo che per la determinazione dei principi fondamentali , riservata alla legislazione dello Stato”.
L’articolo 126 sottopone le Regioni al disposto Costituzionale e alla legislazione nazionale stabilendo che gli atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge possono comportare lo scioglimento del Consiglio regionale
Da tutto ciò si evince che, salvo il caso di una legge-delega, i provvedimenti ministeriali devono mantenersi nell’ambito del potere esecutivo. Quelli regionali invece possono espletarsi solo negli ambiti non riservati allo Stato o, in caso di legislazione concorrente, solo nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti con legge dello Stato. Non rientra pertanto nei poteri del Governo o delle Regioni o di qualunque altra autorità, compresa la magistratura , cambiare i principi costituzionali, le leggi dello stato o il disposto risultante da un referendum popolare nazionale. La facoltà del ministero di definire limiti e modalità delle terapie sostitutive per le tossicodipendenze, anche delegando alle Regioni alcuni provvedimenti, sussisteva in quanto delegata dalla legge 309/90. Tale facoltà, tuttavia, non avrebbe potuto spingersi fino a limitare la libertà terapeutica del medico, garantita, tra l’altro, dall’articolo 33 della Costituzione né a violare l’articolo 3, introducendo distinzioni tra cittadini, non espressamente previste dalla legge, in base a condizioni personali o sociali quali lo stato o la diagnosi di tossicodipendenza. In ogni caso, il referendum del 1993 espresse chiaramente la volontà popolare di togliere al Ministero questa delega che pertanto non può nemmeno essere trasmessa alle Regioni o alle Province Autonome. Si rileva peraltro che le Camere, diversamente da quanto avvenuto in altri analoghi casi, non hanno mai ridefinito gli articoli modificati dal referendum che pertanto devono ritenersi espressione dell’esercizio sia diretto che indiretto della sovranità popolare. Da ciò si deduce che, per espressa volontà popolare manifestata secondo il disposto costituzionale, non sussiste alcun potere da parte di una qualsivoglia autorità diversa dal Parlamento, dal popolo attraverso referendum o dalla Corte Costituzionale di modificare quanto previsto dalla legge 309/90 in fatto di prescrizione di stupefacenti per la terapia delle tossicodipendenze. Altrettanto illegittimi, evidentemente, sono i provvedimenti che modifichino quanto disposto dal Codice Civile o Penale o da altre leggi fondamentali dello Stato o che violino principi costituzionali. Le disposizioni di cui si tratta prevedono che un cittadino maggiorenne con piena capacità giuridica subisca limitazioni non previste da nessuna legge dello stato ( tanto ché non sono applicate a pochi chilometri di distanza ). In particolare si verificherebbe che un paziente maggiorenne, per decisione di un organo amministrativo o di una Regione:
non possa disporre di un farmaco a lui prescritto;
sia costretto a rilasciare il proprio consenso all’informazione dei famigliari in condizioni di evidente coartazione della propria libertà e senza tenere alcun conto delle relazioni famigliari esistenti;
subisca automaticamente un danno se vuole usufruire del diritto al segreto professionale nei confronti dei propri famigliari;
sia discriminato se non ha famigliari ritenuti “affidabili”;
subisca una coartazione della propria libertà personale venendo sottoposto a controlli che la legge non prevede da parte di persone che hanno come unico requisito la parentela;
venga messo in condizioni di sudditanza nei confronti dei propri congiunti dalla cui volontà o arbitrio viene fatta dipendere la disponibilità di una certa modalità terapeutica .
Le stesse disposizioni, inoltre, prevedono di affidare la custodia di stupefacenti e il controllo di una terapia a persone che non hanno e non possono avere alcuna qualifica per svolgere tali funzioni nei confronti di terzi, sulle quali l’ente pubblico non ha alcun diritto di effettuare indagini e che , per quanto (non) si è autorizzati a sapere potrebbero essere a loro volta tossicodipendenti, alcolisti o malati mentali, spacciatori, pregiudicati, o comunque non idonei a gestire la terapia di un proprio congiunto (cosa che peraltro nemmeno i medici generalmente fanno per evidenti problemi relazionali).
Le disposizioni di cui si tratta, se applicate, modificherebbero in maniera sostanziale :
l’articolo 43, comma 3, della legge 309/90 che attribuisce al medico, e a nessun altro, la facoltà di prescrivere fino ad 8 giorni di terapia;
l’articolo 44 della stessa legge che impone il divieto di consegna unicamente a persona minore o manifestamente inferma di mente non facendo alcun accenno (e certamente non a caso trattandosi di legge sulle droghe) a persone tossicodipendenti;
l’articolo 64 della legge medesima che, rimandando all’articolo 120, consente all’interessato, su semplice richiesta, il trattamento in anonimato cioè senza identificazione nominativa del paziente e quindi, tanto meno, dei suoi parenti;
l’articolo 122 della stessa legge che, al comma 2, stabilisce il dovere di formulare il programma nel rispetto della dignità della persona tenendo conto “in ogni caso delle esigenze di lavoro e di studio e delle condizioni di vita famigliari e sociali dell’assuntore”;
l’articolo 2 del Codice Civile che stabilisce che con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia prevista un’età diversa;
gli articoli 414 e 415 del Codice Civile che stabiliscono che l’interdizione possa essere disposta (ma non certo da una regione o da un SER.T.) solo per abituale infermità di mente mentre nei confronti di persone prodighe o che abusano di droghe o alcol può essere disposta l’inabilitazione ma solo per tutelare gli interessi economici dell’interessato o della famiglia (e quindi senza alcun riflesso sui diritti del cittadino-paziente);
gli articoli 7, 8, 10, 83, 84, del D. Lgs. 196/2003 “Codice in materia di protezione dei dati personali” che, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge ( tra cui, evidentemente, non ci sono arbitrarie variazioni delle modalità di prescrizione degli stupefacenti ex 309/90), impongono l’acquisizione del consenso liberamente espresso dall’interessato per ogni comunicazione di dati sensibili a terze persone;
l’articolo 622 del Codice Penale che punisce con la reclusione la violazione del segreto professionale, se da ciò deriva un danno.
Si rileva inoltre che, mentre una legge incostituzionale deve essere dichiarata nulla attraverso i procedimenti previsti dalla costituzione, non si può dire lo stesso di circolari o delibere che impongano comportamenti illegali. E’ infatti, evidentemente, la legge e non la circolare, a fare testo ed ogni cittadino, tanto più se pubblico dipendente, è obbligato in primo luogo al rispetto della legge.
Principio ben illustrato nell’articolo 51 del Codice Penale che prevede l’obbligo di non eseguire un ordine illegittimo e la responsabilità penale di chi, con ciò, commettesse un reato.
La posizione del medico
Il medico che si attenesse alle indicazioni sopra descritte potrebbe, a nostro giudizio, essere ritenuto responsabile della violazione di tutti i succitati articoli di legge. Dato che le circolari e le delibere non possono ritenersi vincolanti a causa dell’esito del referendum, non potrebbe costui evidentemente portare a propria giustificazione l’esecuzione di un ordine insindacabile come previsto dall’articolo 51 del Codice Penale. La legge e la giurisprudenza sono inoltre concordi nell’attribuire al medico, e a nessun altro, la potestà di curare nel rispetto delle leggi dello Stato e al medico pubblico dipendente gli stessi obblighi deontologici del medico libero professionista. A riprova di ciò, l’assunzione presso un ente pubblico o privato è subordinata all’iscrizione all’Ordine il ché comporta l’adesione completa alle regole deontologiche, prima fra tutte quella di rispettare le leggi che non siano in contrasto con la deontologia professionale. Gli articoli 5 e 69 del Codice di Deontologia Medica prevedono infatti che il medico, anche se dipendente o convenzionato, richieda l’intervento dell’Ordine per salvaguardare i diritti propri e dei cittadini qualora si verifichi contrasto tra le norme deontologiche e quelle provenienti dal proprio ente o da qualunque altra parte. E’ quindi evidente che la responsabilità di eventuali danni al paziente o ad altri, derivanti da un affidamento diretto della custodia e del controllo di una terapia con stupefacenti, a terze persone che non hanno in ciò né una responsabilità professionale (come un farmacista o un infermiere) né una responsabilità legale (come l’esercente la tutela o la patria potestà) ricade unicamente su chi ha il potere di prescrivere cioè sul medico. Tale comportamento inoltre risulterebbe difficilmente compatibile con lo spirito e la lettera degli articoli 9,10,11,17, 31, 34 del Codice Deontologico che non prevedono alcuna eccezione dovuta alla diagnosi di tossicodipendenza.
D’altra parte la legislazione esclude la possibilità di prescrizioni a persone diverse dal destinatario della terapia configurandosi il ritiro in farmacia di ricette ad altri destinate come un mandato del paziente, unico proprietario dei propri dati sensibili, e non certo del medico che infatti non deve indicare sulle ricette di stupefacenti altre generalità che quelle dell’interessato. Per inciso, ci si chiede come si può stabilire l’affidabilità di una persona (che, per quanto siamo autorizzati a sapere sul suo conto, potrebbe essere a sua volta tossicodipendente , ma non in terapia, oppure mentalmente insufficiente o dedita al malaffare) su cui, non trattandosi di nostro paziente , non abbiamo alcun diritto di raccogliere informazioni.
Per tutti questi motivi nel nostro servizio, in pieno accordo con le indicazioni del nostro Ordine, abbiamo sempre tassativamente rifiutato di affidare il farmaco ad altri che al paziente a meno ché quest’ultimo, per qualche motivo impedito, non lo richiedesse per iscritto e in piena libertà , come le leggi prescrivono. Ciò non toglie che, in casi selezionati, nell’ambito di un programma comportamentale che preveda il coinvolgimento terapeutico della famiglia, si possa concordare (ma non certo imporre) l’assunzione di questi, come di altri farmaci, davanti ai famigliari . Il titolare della prescrizione e dell’affidamento, però, non può essere, anche in questa fattispecie, altri che l’interessato.
Una riflessione del tutto analoga può essere fatta per i pazienti che assumono il farmaco in Comunità Terapeutica . In questo caso è la struttura dovrà disporre di un armadio chiuso a chiave dove conservare il medicinale, in busta o contenitore chiuso, su cui andrà apposta la scritta “di proprietà del signor (nome e cognome del paziente )”. Nel caso il paziente lasciasse la comunità il farmaco gli dovrà essere consegnato e dovrà essere invitato a rivolgersi al più presto al Ser.T.
per le decisioni del caso. Qualsiasi altra soluzione non sembra compatibile con la vigente normativa e con i principi deontologici. La consegna diretta dello stupefacente dal medico del SER.T. alla Comunità infatti comporterebbe la presenza di registro di carico e scarico presso la struttura e la presenza di un direttore sanitario con la facoltà di gestirlo. Ma in questo caso l’acquisto del farmaco dovrebbe essere fatto direttamente in farmacia o dalla ditta produttrice e la prescrizione dovrebbe provenire da un medico interno alla comunità.
La posizione del paziente
Il paziente che si vede rifiutare ciò che la legge 309/90 consente, a meno ché non accetti di rinunciare ai diritti che il D. Lgs. 196/2003 garantisce, in nome di un provvedimento regionale, provinciale o in ogni caso diverso dalla valutazione clinica sul proprio caso può , a nostro giudizio, rivolgersi, nell’ordine: al difensore civico, all’Ufficio Pubblica Tutela della propria Azienda Sanitaria , all’Ordine dei Medici provinciale, al Garante per la riservatezza, e se da ciò derivasse un danno, alla Magistratura. In determinati casi, inoltre, potrebbe essere giustificato il ricorso alla Magistratura, indipendentemente dal danno, per verificare se nel comportamento adottato non si configuri il reato di omissione di atti d’ufficio essendo il rispetto dei diritti costituzionali del cittadino e delle leggi vigenti un obbligo di ciascun pubblico dipendente e non valendo a giustificazione di tali violazioni la presenza di un provvedimento di una qualche autorità che esuli dalle competenze della medesima. Quest’ultima azione potrebbe anche essere intrapresa da associazioni per i diritti del malato o del cittadino anche garantendo l’anonimato dei danneggiati.
La posizione del famigliare “affidatario”
Il famigliare indotto a firmare un’assunzione di responsabilità per un compito assolutamente non di sua competenza compie, a nostro giudizio, un atto nullo. Dal momento, tuttavia, che effettivamente accetta non solo (come avviene di regola in tutte le farmacie quando il destinatario della ricetta né è impedito) di prendere in consegna lo stupefacente con il consenso dell’interessato, ma anche di custodirlo e di somministrarlo ne entra di fatto in possesso al posto dell’interessato. Non potendosi evidentemente trattare in questo caso di detenzione per uso personale (non più vietato dopo l’abrogazione del comma 1 dell’articolo 72, e sostenibile solo per la detenzione da parte del diretto interessato), si potrebbe configurare la fattispecie di cui all’articolo 60 (acquisto o cessione anche a titolo gratuito) che prevede gli stessi obblighi (registro di carico e scarico, autorizzazioni, ecc.) che pesano su medici , farmacisti, caposala e, si deduce, su chiunque altro detenga o somministri stupefacenti a persone diverse da sé medesimo o dal minore o incapace a lui affidato. Nel caso meno favorevole , tuttavia, si potrebbe configurare anche la fattispecie di cui all’articolo 73 che prevede che “chiunque , senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, (…) cede o riceve a qualsiasi titolo, (…) o comunque illecitamente detiene fuori dall’ipotesi prevista dall’articolo 75 sostanze stupefacenti (…) è punito con la reclusione da otto a venti anni (…)” L’articolo 75 infatti si riferisce unicamente a chi detiene illecitamente sostanze stupefacenti per uso personale , il ché non è il caso del famigliare. La richiesta di assumersi tali responsabilità avanzata da un servizio pubblico nei confronti di un cittadino che ha il solo torto di essere congiunto di persona con diagnosi di tossicodipendenza non ha quindi alcun riscontro nella normativa vigente e deve, a nostro giudizio, considerarsi del tutto illegittima.
Inoltre non sembra che documenti firmati da servizi, regioni , province o singoli cittadini possano modificare il dettato legislativo che, in questo caso, attiene al diritto penale. Sconsiglieremmo pertanto di accettare tale imposizione e suggeriremmo di effettuare gli stessi passi consigliati al paziente.
Affidamento di farmaci stupefacenti per terapia sostitutiva a persone con morfinurie costantemente positivo o “non affidabili”
La citata circolare del Ministero della Sanità 20/94, varie circolari regionali, un gran numero di leggi in un gran numero di paesi europei e , per finire, molti documenti di medici con titoli accademici in ogni parte del mondo, sostengono o hanno sostenuto che la terapia sostitutiva sia legittima ed abbia valenza terapeutica solo se il paziente si astiene da ogni altra droga e, in particolare, da ogni oppiaceo illegale. Gli stessi documenti affermano, in genere, che la “affidabilità” del paziente, sia strettamente correlata alla durata dell’astinenza da droghe illegali.
Alcuni farmaci, come il LAAM, che dal punto di vista farmacologico non presentano alcun vantaggio sul metadone e presentano invece dei rischi in più, sono stati introdotti in alcuni paesi principalmente perché, dato il divieto di consegna, rappresentavano l’unico modo di ridurre gli accessi del paziente al servizio. Lo stesso metadone che, per la sua farmacocinetica, in molti casi dovrebbe essere assunto in due o tre dosi giornaliere, viene quasi sempre somministrato in dose unica per evitare l’affidamento.
A questo proposito si osserva quanto segue.
Il già citato articolo 43 T.U. 309/90 prevede unicamente che la prescrizione non possa superare gli 8 giorni di terapia .
Non esiste, finora, nessuno studio che correli la correttezza dell’assunzione di metadone da parte del paziente alla durata dell’astensione da droghe illegali, anche perché una tale ricerca comporterebbe ovvie difficoltà tecniche .
Il metadone, tuttavia, non è un farmaco “normale” in quanto ha un indubbio valore sul mercato illegale e, quindi, a differenza della sempre citata insulina, può rappresentare una fonte di reddito se venduto ad altri.
Il medico non è tenuto a svolgere indagini poliziesche sul paziente ma certamente è tenuto a vigilare, per quanto gli compete, su eventuali strumentalizzazioni del proprio operato .
L’obbiettivo della terapia sostitutiva è, di regola, l’astensione da eroina . Se questo obbiettivo non viene raggiunto la terapia dovrebbe essere rivista .
Tuttavia anche la riduzione cospicua dell’assunzione di eroina, che non può essere provata con esami tossicologici costantemente negativi, può essere un obbiettivo della terapia se comporta un miglioramento delle condizioni fisiche, psichiche e sociali del paziente .
Per un paziente totalmente scompensato il trattamento di mantenimento con dosi medie di metadone può, inoltre, essere l’unica possibilità di ridurre il rischio di decesso per overdose
La tossicomania iatrogena da metadone non è finora segnalata come problema clinico autonomo, tanto che questa sostanza non è presente sul vero e proprio mercato nero, non viene “trattata” dalle organizzazioni criminali ma, per quanto si può sapere, viene invece ceduta illecitamente a persone dipendenti da eroina per evitare la sindrome d’astinenza.
L’articolo 3 del Codice Deontologia Medica ( CDM) stabilisce che “dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza (…) quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera. La salute è intesa nell’accezione più ampia del termine, come condizione cioè di benessere fisico psichico e sociale”.
L’articolo12 del CDM stabilisce che la prescrizione di una terapia “non può che far seguito ad una diagnosi circostanziata o, quantomeno , ad un fondato sospetto diagnostico”.
Il già citato articolo 122, comma 2, del T.U. 309/90 stabilisce il dovere di formulare il programma “nel rispetto della dignità della persona tenendo conto in ogni caso delle esigenze di lavoro e di studio e delle condizioni di vita famigliari e sociali dell’assuntore.”
Tutto ciò considerato sembra corretto procedere alla prescrizione di metadone e all’affidamento del medesimo a persone con morfinurie positive o che fanno uso di altre sostanze solo se :
il medico ha sufficiente esperienza e competenza per valutare criticamente in maniera indipendente la letteratura e le linee guida sopra citate;
le condizioni cliniche del paziente non richiedono controlli ravvicinati;
non sussistono evidenti motivi per sospettare un uso scorretto del farmaco;
vengono esplicitati in cartella clinica gli obbiettivi terapeutici e le ragioni per cui si stabilisce quel regime di affidamento o prescrizione oppure
il primario del Servizio ha motivatamente adottato un protocollo, da citare in cartella, che prevede, in determinati casi, l’affidamento indipendentemente dagli esiti degli esami tossicologici.
In quest’ultimo caso la responsabilità dell’affido rimane al medico prescrittore in solido con il primario . Pertanto il medico può sempre decidere diversamente purchè giustifichi in cartella la propria scelta.
Per quanto riguarda la buprenorfina il discorso potrebbe essere sovrapponibile. Per questo farmaco tuttavia sono segnalate sia tossicomanie iatrogene sia decessi per uso scorretto, non ostante il suo utilizzo sistematico come terapia sostitutiva sia molto più recente rispetto al metadone. E’ inoltre più problematica la prevenzione dei decessi attraverso il naloxone. Pertanto riteniamo che la cautela dovrebbe essere maggiore sia nella prescrizione sia nell’affidamento, in attesa di dati di farmacovigilanza più estesi.
Responsabilità del medico per l’uso che il paziente fa del farmaco
Si è più volte verificato che il medico sia stato incriminato per aver prescritto o consegnato metadone a pazienti che hanno utilizzato il farmaco in maniera scorretta commettendo reati o suicidandosi. Ricordiamo il caso di un paziente che investì mortalmente due persone uscendo dal SERT e sostenne che ciò era dovuto al metadone che gli era stato somministrato. O i numerosi casi di bambini intossicati dal metadone mal custodito dai genitori. O i casi di omicidio suicidio commessi utilizzando il farmaco. Alcuni di questi procedimenti sono ancora in corso. Ci sentiamo in grado di affermare che in molti casi non sarebbero nemmeno iniziati se la cartella clinica fosse stata compilata con la doverosa diligenza . Per prescrivere correttamente una qualsiasi terapia il medico dovrebbe infatti :
formulare la diagnosi sulla base, per lo meno, di una anamnesi e di un esame obbiettivo e, nel caso intenda iniziare una terapia sostitutiva, di esame tossicologico positivo per composti morfinici oppure della rilevazione di segni oggettivi indicatori di sindrome d’astinenza da oppiacei;
definire gli obiettivi della terapia e scegliere il farmaco dopo aver valutato rischi e benefici;
discuterli con il paziente ed acquisire la sua collaborazione;
informare il paziente delle precauzioni, degli effetti collaterali, delle norme di conservazione in maniera per lui comprensibile;
nel caso di prescrizione di stupefacenti, informare il paziente dei rischi legali di un uso diverso da quello terapeutico;
documentare tutto ciò sulla cartella clinica.
Quando tutto ciò viene fatto è ragionevole pensare che sia più difficile incorrere in incidenti . Nel caso si verificassero, tuttavia, molto difficilmente verrebbero imputati al medico sempre che non ci sia stata una negligenza o un grave errore diagnostico nel rilevare, per esempio, gravi patologie psichiatriche che avrebbero potuto risentire positivamente di un intervento adeguato o che la terapia non fosse controindicata . In nessun punto infatti la legge attribuisce al medico una particolare “tutela” nei confronti di persone tossicodipendenti. Pur sottolineando il dovere della prudenza e dell’attenzione nel rilevare eventuali abusi, riteniamo perciò che il medico non sia responsabile dell’utilizzo di farmaci difformemente dalla sua prescrizione .
Trattamenti “sine die” a dose stabile e trattamenti per indicazioni diverse da quelle approvate e riportate sulla scheda tecnica
In molte sentenze di primo grado medici sono stati condannati in base all’articolo 83 del T.U. 309/90 per non aver previsto la riduzione del dosaggio di metadone o di buprenorfina sulla base di quanto riportato sulla scheda tecnica. A quanto ci risulta, però, non ci sono state condanne in secondo grado.
In base al dettato del CDM, che sempre più viene utilizzato anche in sede giudiziaria per definire la correttezza del comportamento professionale dei medici, la legittimità di un trattamento dipende dal fatto che il medico ne documenti adeguatamente la presumibile utilità per la vita o la salute di quel paziente, anche indipendentemente dalle indicazioni e dai protocolli o linee guida più o meno ufficiali, purchè ciò sia supportato da dati scientifici e clinici.
Questa possibilità è confermata dall’articolo 3, comma 2 della legge 8 aprile 1998 n.94 che dispone: “in singoli casi il medico può sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso informato dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, qualora il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione o via di somministrazione o modalità di somministrazione o di utilizzazione e purchè tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale.
Prescrizione e affidamento di farmaci stupefacenti per terapia sostitutiva a pazienti trasferiti da altri servizi
Il medico che presta assistenza ad un paziente trasferito non assume la titolarità del programma terapeutico e non ne è quindi responsabile. Deve tuttavia garantire il controllo clinico rispetto all’emergere di segni o sintomi che controindichino l’assunzione del farmaco o che siano indicatori di grave inadeguatezza della terapia (per esempio: comparsa di allucinazioni o di depressione respiratoria). In questi casi, prese le decisioni non rinviabili, il paziente dovrà essere riferito al medico responsabile della terapia.
Un problema particolare, tuttavia, si pone ancora in tutti quei casi in cui l’affidamento del farmaco è previsto, dal medico o dall’equipe medica responsabile del caso, in difformità da linee guida ministeriali, regionali o primariali. In queste circostanze il medico a cui il paziente viene temporaneamente inviato non è generalmente in grado di valutare nel merito la decisione clinica presa dal collega e la attua senza cognizione di causa. Si verifica, in questi casi, una situazione analoga a quella prevista dal citato articolo 3 della legge 94/98 che però prevede la “diretta assunzione di responsabilità” del medico prescrittore . Dato che di ogni prescrizione risponde il firmatario, è evidente che, in tali casi, la sua posizione è analoga a quella di chi prescrivesse un farmaco sperimentale facendosi carico, a scatola chiusa, di valutazioni, operato e responsabilità professionale del collega.
Il Ser.T. non è, infatti, una farmacia dove, tranne casi eclatanti, il farmacista ha il solo compito di eseguire quanto scritto sulla ricetta e di verificarne la corrispondenza formale a leggi e regolamenti. Al contrario, la somministrazione di farmaci da parte di un infermiere professionale comporta necessariamente un controllo clinico del paziente, e non solo della prescrizione, in primo luogo da parte dell’infermiere stesso e, ogni volta che quest’ultimo lo ritenga utile, anche da parte del medico dirigente sotto la cui responsabilità si sta svolgendo la somministrazione. Sottolineiamo che ciò non significa che i pazienti debbano sempre essere visti materialmente dal medico. Alla professione infermieristica infatti è ormai riconosciuta sufficiente autonomia anche per attuare variazioni di dosaggio dei farmaci secondo protocolli e condizioni prestabilite. E’ tuttavia indubbio che, fintanto che permarrà la confusione generale sui modi in cui può essere legittimamente attuata la terapia sostitutiva, è opportuno che per persone trasferite con programma di affidamento per più giorni o indipendente dall’esito degli esami tossicologici, il medico inviante prenda contatto preliminarmente con i colleghi e, se questi ultimi lo richiedono, munisca il paziente di una relazione clinica in cui sia chiaramente descritto il razionale della terapia in atto.
Richiesta di svolgere funzioni di carattere medico legale nei confronti dei propri assistiti
L’articolo 64 del CDM vieta al medico curante di svolgere funzioni medico-legali di ufficio o di controparte nei confronti dei propri assistiti. Per “medico curante” si intende ovviamente , ogni medico che abbia compiti di cura , compreso il medico del SER.T.. Non è quindi legittima la richiesta, a volte avanzata ai SERT, di rilasciare certificati o relazioni relative ai trattamenti farmacologici a Commissioni Patenti, Tribunali dei Minori o quant’altro. Naturalmente qualsiasi relazione o certificazione può e deve essere rilasciata, su richiesta, al paziente o al suo avvocato difensore che ne farà l’uso più opportuno per l’interessato.
Norme citate
D.P.R. 171/93
Circ. Min.San. 20/94
T.U. 309/90
Legge 12/2001
Circ. Min. Sani. 9/2001
Costituzione della Repubblica Italiana vigente nell’Aprile 2003
Codice Civile
D. Lgs. 196/2003
Codice Penale
Codice di Deontologia Medica
Legge 94/98